Intervista alla musicista comasca uscita in questi giorni con #Darklight per Aamadeus Arte. “La natura stessa dell’arpa risiede negli opposti che si incontrano, così come l’elettronica e anche un certo esoterismo: il buio che si fa luce”
“Arriviamo da molto lontano, e siamo qui perché curiosi e coraggiosi”. Se attraverso uno strumento musicale si può scrivere un manifesto visionario, questo è l’arpa di Floraleda Sacchi, giunta, dopo anni di ‘militanza’ – mai ideologica – nella musica classica a disegnare in “#Darklight” (cd per Amadeus Arte, etichetta da lei fondata nel 2011) il proprio paesaggio sonoro, privo di quell’ansia di porre confini e limiti che sembra segnare il nostro tempo. “Mi piace moltissimo la musica antica, e mi piace anche l’elettronica, con la sperimentazione che questa consente. Non trovo alcun ostacolo tra i due generi, e non ho alcun problema nel passare dall’uno all’altro. Nel corso della mia carriera, invece, ho percepito una chiusura tra i generi”, spiega all’AGI l’artista comasca, 39 anni, acclamata come una delle più interessanti arpiste sulla scena internazionale.
Quale, tra i due, è il genere, che si chiude di più all’altro? “La musica classica, ma è vero che questa soffre anche di una ghettizzazione poichè talvolta viene percepita come una roba noiosa; e invece è grande musica, da cui si può trarre tantissimo”, aggiunge, indicando, nel denso libretto che accompagna il cd, i due principali responsabili della stagnazione in cui la musica rischia di affondare: “L’industria musicale, che non sempre coincide con la musica migliore o i migliori musicisti” e “il mondo accademico, del quale diffidare”.
Più livelli di suono
“Arriviamo da molto lontano”, dunque: il brano-manifesto che racchiude e presenta una visione della musica arriva quasi al termine di un ‘viaggio’ in cui Floraleda Sacchi arrangia, riscrive, compone, ricompone, annoda e incatena “con istinto e fantasia – scrive nell’introduzione Angelo Foletto – quattordici numeri musicali”, rivisitando Max Richter, Roberto Cacciapaglia, Nils Frahm, Samuel Barber, Clint Mansell, Joe Hisaishi, Vladimir Martynov, Olafur Arnalds. “È un brano particolare – afferma l’arpista – perché riuscivo a provare più livelli di suono: quello dell’armonia rinascimentale, ma anche moderno. C’è un primo impianto armonico, e poi ho improvvisato liberamente, lavorando al computer in un mixaggio complesso. Ci sono volute più ore di lavoro in questa fase, che durante la registrazione”.
Rivisitare, ma componendo; restituendo la propria interpretazione, altrettanto rigorosa e autentica dell’originale: sembra questa una delle sfide, riuscite, di “Darklight”. L’acqua, la nebbia, il buio, la luce; e la luce oscura: “Prima di trovare un suono, un paesaggio sonoro che incarni tutto questo è necessaria anche più di una settimana. Uno dei brani di Max Richter, ad esempio, era molto chiaro, avevo ben chiaro come doveva essere. In ‘Europe after the rain’ ho ricreato tutta la pioggia, la partitura base non era un problema, poi è arrivata una elaborazione del suono serratissima, con la tensione di un’armonica, ci ho lavorato tanto per arrivare a quello. Altri brani li devi ascoltare a orecchio e trascrivere. L’arrangiamento significa, in questo caso, ricostruire a orecchio un brano e riadattarlo”.
“La vibrazione è la narrazione, la vita”
Floraleda Sacchi non rinnega la tradizione, anzi. Si serve di uno strumento che ha “5.000 anni e ha già superato ogni prova”, e “curioso e coraggioso” sfida l’elettronica: “Quando reinterpreto un brano – spiega – metto tantissimo di mio, riprovo i suoni, cerco gli arrangiamenti ma faccio di più: è composizione e sound design. Ho cercato di scrivere, comporre qualcosa che sia a sostegno di una mia visione della musica, contro le discriminazioni accademiche”. Un musicista, sottolinea, “deve suonare tutto e lavorare sul suono, sulla vibrazione. La vibrazione è la natura, la vita: siamo noi. Quando lavori su quello: energia, vibrazione, suono, passare da un genere all’altro non è così difficile”. Il suono è la materia prima”, sotterrata dal rumore di fondo odierno, che “ti impedisce di sentire oltre, ti impedisce di andare più in là con la mente”. “Il rumore di fondo che avanza – avverte l’artista – è dato dall’inquinamento sonoro, dai social, da quell’uso di social che invade la vita delle persone: messaggini, chat e altro da cui bisogna difendersi, in questo momento storico. Pena, la perdita di umanità”.
“Vivere nel lusso intellettuale più sfrenato”
L’album ha inizio con “Andras”, di Max Richter, compositore britannico che Floraleda Sacchi ama molto: “Richter cerca l’armonia e l’ispirazione, dipinge immagini; tra l’altro a lui il mio album è piaciuto, come è piaciuto a Cacciapaglia. Volevo cominciare con un preludio”. Dalla nebbia di Richter si percorre, senza dogane nè necessità di avere passaporti, una strada sonora che sfocia nella luce dell’islandese Olafur Arnalds (“Near light”): “La luce – sostiene l’artista – anche piccola, va cercata, anche quella nei punti oscuri”. Il titolo “Darklight” è tutto lì. “La natura stessa dell’arpa – prosegue – risiede negli opposti che si incontrano, così come l’elettronica e anche un certo esoterismo: il buio che si fa luce. Io sono ottimista. Cerco di essere ottimista. ‘Darklight’ è questo, ed è un atto d’amore verso la musica, realizzato in quella libertà di pensiero e di spirito che conduce all’arte”. Per essere liberi e creativi, ricorda ancora una volta, bisogna “leggere Skakespeare, Borges, i fumetti e gli haiku, e ascoltare Deprez, Ravel e i Kraftwerk”. Bisogna, insomma, “vivere nel lusso intellettuale più sfrenato”.
di FABIO GRECO
28 ottobre 2017, 15:07
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